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Dopo aver letto i diari d’esplorazione di questo libro forse il lettore avrà più chiaro l’obiettivo di quell’andare apparentemente senza senso che conduce al punto estremo focalizzato al centro del continente antartico e che al contrario di ogni altra esplorazione non è rivolto a un luogo geografico significativo (una vetta una foce una sorgente un’isola). Non è neppure una città fantasma una mitica Eldorado un continente sommerso. Il punto inseguito dagli esploratori antartici è semplicemente un luogo geometrico un punto originato dalla forma sferica della Terra e dalla cartografia che ha cercato di misurare il pianeta: il punto d’incontro tra la natura e la scienza geografica. Ma è anche uno dei dati di un problema di fisica. L’altro dato necessario per risolvere il problema è stabilito dalla resistenza degli uomini che cercano di raggiungere quel punto. Ovvero dato un punto geografico come si può raggiungerlo conoscendo attrito e forza motrice del punto mobile.
Il primo viaggio di Scott è aleatorio sembra più il lancio di un sasso verso il cielo in quella direzione indeterminata che è soltanto lontananza dal punto di partenza e che termina la sua corsa troppo lontano dal bersaglio per fornire dati significativi.
La spedizione di Shackleton ha spostato in avanti la tensione di quell’elastico e s’è fermata a 97 miglia dall’obiettivo. Le difficoltà sopraggiunte durante il viaggio di ritorno hanno dato ragione all’esploratore che effettivamente aveva misurato bene le capacità e la resistenza umane. Non sarebbe stato lui a trarre le conseguenze dalla sua esperienza ma sarebbe toccato a Scott valutare di persona quanto difficile era percorrere quelle ulteriori 97 miglia.
L’ultima spedizione di Scott – qui documentata dal diario di Wilson – racconta quel che Shackleton ha pensato non dovesse essere vissuto. Racconta quel che c’è oltre il limite delle capacità umane.
Filippo Tuena
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