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Nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, insieme a strade, ferrovie e porti, sono andate distrutte centinaia di barche italiane, barche da lavoro ma anche yacht, sebbene in quegli anni questo termine inglese fosse poco in uso. Nel dopoguerra le condizioni del Paese rimasero precarie per una decina d’anni almeno e in quel periodo le poche navi ancora in uso praticavano esclusivamente il piccolo cabotaggio e la pesca. Tutte le imbarcazioni attive hanno operato fino a che è stato economicamente possibile tenerle in vita, mentre quelle piccole, che ancora conservavano un armo a vela, sono state motorizzate e successivamente destinate alla demolizione.
All’inizio degli anni ’60 in Italia non esistevano praticamente più imbarcazioni da lavoro tradizionali. Gli ultimi pescherecci, tonnare, lance, spadare, gozzi sono finiti al macero per la lettura miope di una norma comunitaria, nata con lo scopo di sostenere la competitività della flottiglia da pesca, ma poi rivelatasi un’arma letale che ha contribuito alla distruzione di opere dell’ingegno umano di svariate generazioni e di grande valore storico. Tutto questo perché, per accedere ai contributi della Comunità Europea, gli armatori delle barche da lavoro dovevano dimostrare la distruzione delle vecchie unità. Tale scempio si è verificato nell’intera Europa, salvo in quelle nazioni dove esistevano leggi che preservavano le barche di valore storico.
Il risultato è che si è persa quasi completamente la memoria della mari- neria italiana di quell’epoca, di cui esistono solo rare fotografie, alcuni libri e rarissimi filmati dell’Istituto Luce. Il poco rimasto è conservato nei musei navali o nelle biblioteche delle città di mare.
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